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Recensione di Silvia TARICCO

 

Mario Perosino, pittore astigiano, per sua definizione « autodidatta », ma non passato impunemente attraverso i corsi di restauro dì Brera (ed ecco la spiegazione della sua pazienza, del suo segno così diligente) la frequentazione assidua degli antichi maestri e — anche — come elemento dirompente, l’incoraggiamento e il consiglio di Giorgio Griffa ed Eugenio Guglielminetti, i due « patrons » della vecchia « Giostra » del dopoguerra.
Poche le sue presenze in Asti: qualche lontanissima collettiva, la prima personale nel 1951 e la grande rassegna al Battistero nel 1967, sotto gli auspici del « Lions Club » di Asti. Poi, Perosino, pur mantenendo studio nella sua città natale, ha preferito gravitare su Firenze e Roma. E proprio a Roma, sostenuto dalla stima di Corrado Cagli, ha colto i suoi maggiori successi con personali al « Nuovo Carpine » e al « Cerchio d’oro ». Ma Perosino è per gli astigiani, almeno per i più giovani, un pittore tutto da scoprire. Un pittore che abbiamo, dunque, il dovere di rifare nostro, perché la sua è una voce che vale la pena di ascoltare, perché il suo discorso pittorico è di grande interesse, e qualcosa di non trascurabile, ci pare, aggiunge alla storia della pittura piemontese contemporanea.
Perosino è un artista completo, con molte corde al proprio arco. Ha saputo passare da certe visioni paesistiche, a china, dove un leggerissimo puntillismo riesce a dare sofficità alle fronde, alle prode erbose dei primi piani, in una « maniera » giocata sull’antico, che però sarebbe piaciuta a un Cino Bozzetti; a certe convulse ampie « battaglie », dalla pennellata succosa a visciolata, alla Sassu, che, pur nella « presunzione » giovanile già testimoniano di un forte temperamento artistico; per arrivare, finalmente, ai grandi « cavalieri », sorta di Don Chisciotti costruiti attingendo a un ampio repertorio barocco, fino a queste sue ultime composizioni di « figure» e « architetture » dove il ghirigoro riesce a farsi forma e contenuto... Ecco, allora, questo suo segno ossessivo che pare non consentirgli requie: i tratti, i punti, gli schemi geometrici si rincorrono in un horror vacui che si farebbe ansia, allucinazione, se non fosse per il canto esaltante dei colori puri che vanno a comporsi in quegli spazi, spesso brevissimi, come vivide tessere musive. Ed è solo il colore, dunque, con la sua magica vitalità, ad esorcizzare, a volte, quel senso di solitudine, di malinconia che emana da queste composizioni. Sentiamo, allora, che non si tratta, come potrebbe apparire, solo di un gioco della mano abilissima, ma un preciso modo di esprimere, oltre una chiave trovata, oltre un certo narcisismo, una disperata necessità di materializzare in qualche modo il proprio sogno di età favolose, di calarsi nel cuore — perduto — delle fiabe antiche... Assurdamente, dunque, più vicino a Klee che all’acre decadentismo di un Beardsley, o, meglio, alla elegante frivolezza « art-déco » di un Erté. Piuttosto, potremmo trovare nell’opera di Perosino qualcosa di molto simile al « trabocco fantastico » (Ragghianti) di Tono Zancanaro, che nel pittore padovano — per citare ancora le parole del Ragghianti — diventa « fabbrica di lingua poetica ».
E, certamente, Mario Perosino è riuscito a creare un suo linguaggio:un linguaggio che può, a volte, trasfigurarsi, appunto, in « lingua poetica ».

 

 

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