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Pontedera ottobre 1973, recensione di Dino CARLESI

 

Mi pare troppo semplicistico parlare — come alcuni hanno fatto — di « eleganze da miniature » o di « decorazione » o anche di « pittura di immaginazione » a proposito del lavoro artistico di Perosino. Il suo prodotto sarebbe, in questo caso, o un arabesco estroso o un’aggiunta superflua o una negazione totale della razionalità. Sono troppe cose insieme, e troppo ardue, per accettane serenamente e dar loro una parvenza di verità. È una mitologia di ricerca che voglio evitare.
Che mi resta? La lettura delle vecchie opere figurative per rintracciare e giustificare un aggancio scolastico alla grande lezione grafica del cinque e seicento? O Io studio dell’evoluzione e delle fasi intermedie per carpire i segreti — psicologici e tecnici e ideologici — dei mutamenti della sua pittura e le motivazioni delle rotture stilistiche? O più semplicemente ascoltare i ritmi interni di queste tele per attendere emozioni e quindi rintracciare, nonostante tutto, una « contemporaneità » nel suo solenne e apparentemente arcaico gioco di simboli?
Forse tutti questi aspetti dell’indagine (condotta per « capire ») possono essere tenuti presenti e aiutarci a decifrare — forse per la prima volta in modo organico — il lavoro di un pittore che in vent’anni ha inseguito senza posa modelli interiori ed esteriori di riferimento per appagare evidentemente una autentica vocazione a raccontare e a testimoniare.
Il saltuario suo rigetto (via via sempre più insistente e continuo) delle esperienze impressionistiche era già il sintomo di un mancato appaga- mento nel realizzare pittura in forme nobili ma ripetute: forse il contemporaneo lavoro condotto in due direzioni — quella reale e quella irreale — era ed è, da parte dell’artista, lo scotto da pagare ad una problematica che non trova ancora in sé la forza di cessare di esser tale, al dilemma tra il positivo e il negativo di una interpretazione esistenziale ancora ricca di sviluppi interiori, forse all’incertezza tra l’accogliere e il rifiutare gli stessi valori del mondo. Ma il richiamo a certi schemi tradizionali — pur eseguiti e innovati con freschezza grafica e bravura eccezionale — poteva persistere solo in un copista testardo: la via era pericolosa ed io sono d’accordo con Perosino quando dice che stile e contenuti si trasformano incessantemente e afferma di rivolgere le sue predilezioni alle più recenti trasfigurazioni simboliche e coloristiche.
L’amore per le forme comuni del reale presuppone in primo luogo una fiducia anteriore e completa in quelle forme, la maturata convinzione verso un equilibrio da ritrovare dentro le cose e con le cose del mondo, direi perfino il gusto della sudditanza da esse, l’attitudine a subirle, e contemporaneamente l’incapacità a sapersi difendere da situazioni storiche idealmente compromesse e che quella realtà formano e condizionano.

Il paesaggio classico o la figura realista non si pongono per lui (e la ricerca delle cause qui intenzionalmente la tralasciamo) che come ripetizione e adeguamento, e comprendo bene come egli avverta il disagio di una situazione creativa che ha bisogno del reale per esistere ma ha bisogno nel contempo di smarrirlo di nuovo per esistere esteticamente. In questo suo intenzionale smarrimento del « vero » l’intelligenza deve giocare senz’altro un suo ruolo, non può esimersi dall’impegno critico.
Se ho una perplessità nel collocare questa pittura negli schemi teorici del surrealismo è proprio per la sua carica di razionalità che — nonostante tutto — essa contiene, in difformità da quella esaltante istintualità che dadaismo e surrealismo vollero così polemicamente rivalutare. Abbandonati i modelli tradizionali, e volendo rimanere fedele alla autenticità del proprio mondo, a Perosino non restava che questa sublimazione dei contenuti in chiave « irreale » (termine che in questa cosa preferisco al surreale), non subendo però i simboli per passività di fronte all’irrazionale ma volendoli e cercandoli come riscatto dal banale e come costruzione di storia personale attraverso la resurrezione coraggiosa di miti figurali e di antiche leggende civili e morali.

 

 

L’atto che scaturisce dal profondo è sempre « conoscenza », gravano sulla percezione infinite componenti umane, la rappresentazione è sempre frutto di fattori logici e illogici: queste figure di Perosino — metalliche e pur tenerissime — nascono da chissà quali profonde ombre e si proiettano dentro la storia presente con la spavalderia di chi sa di attingere ancora a fonti autentiche di candore e di grazia. Per cui il suo messaggio si fa anche protesta verso qualcosa da rifiutare, difesa dell’intelligenza, ormai screditata, dalla massificazione violenta, aspirazione al sogno come difesa e consolazione. Sembrano purtroppo ancora puntuali — per lui e per noi — le parole che Eluard e Boifford scrissero nel ‘24 per difendere il surrealismo: « Data l’inutilità del processo della conoscenza e non essendo più l’intelligenza tenuta in considerazione alcuna, soltanto il sogno lascia all’uomo tutti i suoi diritti alla libertà ». Il grido di Breton ( La fantasia sta forse per riconquistare i propri diritti ») è ancora valido per Perosino (e Io dovrebbe essere per il mondo!) e proprio la fantasia riesce a suggerirgli una tale inventività di forme da sopperire per ora al richiamo sempre più struggente del vero e del verosimile, e sostanziare i risultati con una carica furente e pur patetica di ribellione e di protesta verso gli schemi logici comuni. Proprio come quando si irrideva a quel « vecchio istrione di Cezanne » con le sue « tre mele su un piatto ».
Ma sono molti i caratteri autonomi che non consentono di chiudere facilmente l’artista dentro le poetiche di una « scuola » e particolarmente in qualcuna di quelle facilmente individuabili — e ormai invecchiate — che rappresentarono l’avanguardia negli anni dal 1915 al 1930, e che continuano ancora oggi ad esistere come memoria e cultura: basti riflettere al fatto che in queste tele il fortuito e l’occasionale (dominanti un tempo) non irrompono mai con irrazionale veemenza, l’alluci- nazione non si fa mai dominatrice, ma anzi appaiono ormai sempre più evidenti i segni di una lucida presenza umana, elegante e colta, che mi richiama alla mente, semmai, il secondo surrealismo (per alcuni il « quarto » dopo quello bretoniano, quello dell’impegno civile, quello americano di Duchamp e Matta e Lam), intendo quello del dopoguerra, e penso a quell’impareggiabile « Donna dalle braccia articolate » che Hans Behmer dipinse nel ‘65 con grafia e potenza eccezionali.
Se è vero che la creazione artistica è anche un modo di inventare nuovi rapporti col mondo, una specie di immanente relazione col presente, Perosino questi rapporti li sprofonda all’indietro, verso categorie, apparentemente astratte, al limite della metafisica, in un tempo astorico, colmo di eroismi sopravvissuti, di miti in lui non spenti, di drammaticità solenne che è classica e futuribile insieme, in bilico tra la fissità di una arabescata armatura antica e una « Lesbia » costruita e materializzata in forme quasi astrali e avveniristiche. È una fuga dal presente, la sua, o un ricupero del passato per riadattarlo e sostituirlo alla attuale disperazione? Evito un giudizio di valore su questa scelta, ma è certo che la pittura testimonia questo suo disgusto, questo rifiuto per la rissa e la lotta, anche se, in fondo, rispunta fuori da questi simboli (articolati in ritmi, rotture, lacerazioni, angolazioni geometriche) una provocazione e una sete per altre avventure e per altre lotte. La sua aspirazione al fantastico non è sogno letterario (e neppure soltanto « piacere di dipingere » come lo ha chiamato l’autore giorni fa), ma anche gratificaziàne personale e affermazione di autonomia, e direi anche: inconscia consolazione.

In questo « divertimento » serio e fastoso le preziosità architettoniche fanno da supporto all’ispirazione, anzi si identificano con essa: la geometria è il linguaggio significante che forse nasconde pudori e affettività e amore sotto il segno rigido che rende aspra la linea o dentro il ricamo grafico che si compiace nel distribuire luce a triangoli e cerchi che caricano di tensioni liriche il Poeta laureato » o immalinconiscono l’austerità dello « Specchio » o l’eleganza del « Falconiere ».
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Guardandoli sembra di uscire dalla nostra lacerante fretta quotidiana — chiassosa e suicida — per rifugiarci dentro una simbologia calda e affettuosa più di quanto l’autore non voglia tradire e confessare: una pittura « silenziosa », anche se il dialogo è aperto con figure che non sanno sorridere o per ironia o per disincantamento o per pietà, e quasi ci parlano con sufficienza faraonica e dignità regale da antiche stagioni ancestrali, e che Perosino fa rivivere quasi per intenzionale crudeltà presentandole come beni perduti e irricuperabili per nostra colpa ed eccesso di cattiveria

In questa fase di creativa riscoperta di un mondo impossibile, l’artista asseconda (qui davvero assai inconsciamente) una sua fatale aspirazione ai « princìpi » alle « forme pure », sollecitate magari da un portale o un rosone o un ornato: un capitello greco è spunto per un idillio formale e come tale da riinserirsi dentro una sagoma fiorita, una cupola giottesca può farsi simbolo di un sereno equilibrio che va oltre la statica e la potenza, fino alle fibre di una fanciulla, all’anima di uno strumento: e allora il dipingerli — comprendo bene—  è fatica appagante, conquista di una dimensione interiore che va ricercando quell’accordo sparito tra le cose e gli uomini e le forme, fino al turbamento e al disperato squilibrio della loro collocazione terrena.

Si guardi al motivo delle figure, così insistente e coerente (» Donne con ventaglio », « Il clavicembalo », « Modista », « Cavaliere », ecc.): predomina la « categoria » di un essere antico inventato per dileggio del nuovo o paura del futuro, ma l’individuo, che sembra fisicamente dimenticato o ucciso, trionfa idealmente di nuovo nelle spoglie liriche di un gladiatore ferito o di un faraone seduto dentro uno spazio « non fisico » immenso: cavallo o strumento o falco o bottiglia, tutto è impaginato sconcertante che non si sa neppure a quali futuri risultati formali potrà approdare.Le linee tendono a farsi musica, a ispessirsi o allargarsi secondo un moto che sa di sacralità e insieme di racconto fiabesco, l’intreccio grafico (che ricorda quello del Cagli di « Proserpina » o del « Capitano di ventura », anche se diverse sono le motivazioni, le intenzioni e le tensioni) non può farsi decorativo per il fatto che esso serve da struttura portante per costruire dall’interno la visione dell’insieme, cioè quell’intrico onirico — che non sai se più pregevole sotto l’aspetto signico o semantico o ideologico — al quale soggiace non solo il gioco delle linee e dei colori ma quello più drammatico dell’esistenza.

L’aspirazione, comunque, è rivolta verso un discorso di civiltà e di pulizia: ciascuno attende i propri « profeti » a cui attingere luce. Non so quanto Perosino abbia scavato nella propria disperazione per cogliervi sartrianamente il conforto alla sua giornata terrena e quanto invece vada cercando la consolazione dalla natura o dal cielo: le sue « spirali » infatti, possono essere ascese verso gli aspetti più commoventi del vivere per rompere l’abituale rigidità delle composizioni e delle leggi della vita, ma possono anche rappresentare la durezza compatta di archetipi agili e forti come belve, o anche Costituirsi come punti di forza per resistere ad una esistenza troppo carente di sicurezza e di amore qual è quella contemporanea. Comunque stiano le cose, è certo che a Perosino urge questa lirica esaltazione del mondo e comprendo il senso del suo « gioco » e della sua « felicità »: essa gli deriva dal far finta di scavare una età dell’oro dal profondo di se stesso, e di compiacersi di questa donata e ardita corrispondenza, e di offrircela con la gioia di chi sa di disseppellire un tesoro.
L’operazione non è ovviamente di tipo realistico ma magico e lirico insieme. Importante è dar corpo ancora ad una architettura che vive dentro, favolosa come la preistorica, e per di più unificante ciò che solitamente ci viene offerto diviso dai sentimenti e dalla storia: la vita e la morte, la realtà e il sogno, il reale e l’immaginario. In queste tele non sai se ti colpisca di più ciò che è stato o ciò che deve ancora accadere, la speranza del vivere o l’urgenza del morire, l’aspirazione al vero o la consolazione dell’inganno accettato. Certo è che questi simboli sono carichi di attese sconcertanti, di stupefatte solitudini, di misteriosi silenzi: l’enigma ti coglie di sorpresa e accentua le tensioni, fino a suscitare ansia e tremore.

 

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