Mi pare troppo
semplicistico parlare — come alcuni hanno fatto — di « eleganze da miniature » o
di « decorazione » o anche di « pittura di immaginazione » a proposito del
lavoro artistico di Perosino. Il suo prodotto sarebbe, in questo caso, o un
arabesco estroso o un’aggiunta superflua o una negazione totale della
razionalità. Sono troppe cose insieme, e troppo ardue, per accettane serenamente
e dar loro una parvenza di verità. È una mitologia di ricerca che voglio
evitare.
Che mi resta? La lettura delle vecchie opere figurative per rintracciare e
giustificare un aggancio scolastico alla grande lezione grafica del cinque e
seicento? O Io studio dell’evoluzione e delle fasi intermedie per carpire i
segreti — psicologici e tecnici e ideologici — dei mutamenti della sua pittura e
le motivazioni delle rotture stilistiche? O più semplicemente ascoltare i ritmi
interni di queste tele per attendere emozioni e quindi rintracciare, nonostante
tutto, una « contemporaneità » nel suo solenne e apparentemente arcaico gioco di
simboli?
Forse tutti questi aspetti dell’indagine (condotta per « capire ») possono
essere tenuti presenti e aiutarci a decifrare — forse per la prima volta in modo
organico — il lavoro di un pittore che in vent’anni ha inseguito senza posa
modelli interiori ed esteriori di riferimento per appagare evidentemente una
autentica vocazione a raccontare e a testimoniare.
Il saltuario suo rigetto (via via sempre più insistente e continuo) delle
esperienze impressionistiche era già il sintomo di un mancato appaga- mento nel
realizzare pittura in forme nobili ma ripetute: forse il contemporaneo lavoro
condotto in due direzioni — quella reale e quella irreale — era ed è, da
parte dell’artista, lo scotto da pagare ad una problematica che non trova ancora
in sé la forza di cessare di esser tale, al dilemma tra il positivo e il
negativo di una interpretazione esistenziale ancora ricca di sviluppi interiori,
forse all’incertezza tra l’accogliere e il rifiutare gli stessi valori del
mondo. Ma il richiamo a certi schemi tradizionali — pur eseguiti e innovati con
freschezza grafica e bravura eccezionale — poteva persistere solo in un copista
testardo: la via era pericolosa ed io sono d’accordo con Perosino quando dice
che stile e contenuti si trasformano incessantemente e afferma di rivolgere le
sue predilezioni alle più recenti trasfigurazioni simboliche e coloristiche.
L’amore per le forme comuni del reale
presuppone in primo luogo una fiducia anteriore e completa in quelle forme, la
maturata convinzione verso un equilibrio da ritrovare dentro le cose e con le
cose del mondo, direi perfino il gusto della sudditanza da esse, l’attitudine a
subirle, e contemporaneamente l’incapacità a sapersi difendere da situazioni
storiche idealmente compromesse e che quella realtà formano e condizionano.
Il paesaggio
classico o la figura realista non si pongono per lui (e la ricerca delle cause
qui intenzionalmente la tralasciamo) che come ripetizione e adeguamento, e
comprendo bene come egli avverta il disagio di una situazione creativa che ha
bisogno del reale per esistere ma ha bisogno nel contempo di smarrirlo di nuovo
per esistere esteticamente. In questo suo intenzionale smarrimento del « vero »
l’intelligenza deve giocare senz’altro un suo ruolo, non può esimersi
dall’impegno critico.
Se ho una perplessità nel collocare
questa pittura negli schemi teorici del surrealismo è proprio per la sua carica
di razionalità che — nonostante tutto — essa contiene, in difformità da quella
esaltante istintualità che dadaismo e surrealismo vollero così polemicamente
rivalutare. Abbandonati i modelli tradizionali, e volendo rimanere fedele alla
autenticità del proprio mondo, a Perosino non restava che questa sublimazione
dei contenuti in chiave « irreale » (termine che in questa cosa preferisco al
surreale), non subendo però i simboli per passività di fronte all’irrazionale ma
volendoli e cercandoli come riscatto dal banale e come costruzione di storia
personale attraverso la resurrezione coraggiosa di miti figurali e di antiche
leggende civili e morali.
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L’atto che scaturisce dal profondo è sempre «
conoscenza », gravano sulla percezione infinite componenti umane, la
rappresentazione è sempre frutto di fattori logici e illogici: queste figure di
Perosino — metalliche e pur tenerissime — nascono da chissà quali profonde ombre
e si proiettano dentro la storia presente con la spavalderia di chi sa di
attingere ancora a fonti autentiche di candore e di grazia. Per cui il suo
messaggio si fa anche protesta verso qualcosa da rifiutare, difesa
dell’intelligenza, ormai screditata, dalla massificazione violenta, aspirazione
al sogno come difesa e consolazione. Sembrano purtroppo ancora puntuali — per
lui e per noi — le parole che Eluard e Boifford scrissero nel ‘24 per difendere
il surrealismo: « Data l’inutilità del processo della conoscenza e non essendo
più l’intelligenza tenuta in considerazione alcuna, soltanto il sogno lascia
all’uomo tutti i suoi diritti alla libertà ». Il grido di Breton ( La fantasia
sta forse per riconquistare i propri diritti ») è ancora valido per Perosino (e
Io dovrebbe essere per il mondo!) e proprio la fantasia riesce a suggerirgli una
tale inventività di forme da sopperire per ora al richiamo sempre più struggente
del vero e del verosimile, e sostanziare i risultati con una carica furente e
pur patetica di ribellione e di protesta verso gli schemi logici comuni. Proprio
come quando si irrideva a quel « vecchio istrione di Cezanne » con le sue « tre
mele su un piatto ».
Ma sono molti i caratteri autonomi che non consentono di chiudere facilmente
l’artista dentro le poetiche di una « scuola » e particolarmente in qualcuna di
quelle facilmente individuabili — e ormai invecchiate — che rappresentarono
l’avanguardia negli anni dal 1915 al 1930, e che continuano ancora oggi ad
esistere come memoria e cultura: basti riflettere al fatto che in queste tele il
fortuito e l’occasionale (dominanti un tempo) non irrompono mai con irrazionale
veemenza, l’alluci- nazione non si fa mai dominatrice, ma anzi appaiono ormai
sempre più evidenti i segni di una lucida presenza umana, elegante e colta, che
mi richiama alla mente, semmai, il secondo surrealismo (per alcuni il « quarto »
dopo quello bretoniano, quello dell’impegno civile, quello americano di Duchamp
e Matta e Lam), intendo quello del dopoguerra, e penso a quell’impareggiabile «
Donna dalle braccia articolate » che Hans Behmer dipinse nel ‘65 con grafia e
potenza eccezionali.
Se è vero che la creazione artistica è anche un modo di inventare nuovi rapporti
col mondo, una specie di immanente relazione col presente, Perosino questi
rapporti li sprofonda all’indietro, verso categorie, apparentemente astratte, al
limite della metafisica, in un tempo astorico, colmo di eroismi sopravvissuti,
di miti in lui non spenti, di drammaticità solenne che è classica e futuribile
insieme, in bilico tra la fissità di una arabescata armatura antica e una «
Lesbia » costruita e materializzata in forme quasi astrali e avveniristiche. È
una fuga dal presente, la sua, o un ricupero del passato per riadattarlo e
sostituirlo alla attuale disperazione? Evito un giudizio di valore su questa
scelta, ma è certo che la pittura testimonia questo suo disgusto, questo rifiuto
per la rissa e la lotta, anche se, in fondo, rispunta fuori da questi simboli
(articolati in ritmi, rotture, lacerazioni, angolazioni geometriche) una
provocazione e una sete per altre avventure e per altre lotte. La sua
aspirazione al fantastico non è sogno letterario (e neppure soltanto « piacere
di dipingere » come lo ha chiamato l’autore giorni fa), ma anche gratificaziàne
personale e affermazione di autonomia, e direi anche: inconscia consolazione.
In questo « divertimento » serio e fastoso
le preziosità architettoniche fanno da supporto all’ispirazione, anzi si
identificano con essa: la geometria è il linguaggio significante che forse
nasconde pudori e affettività e amore sotto il segno rigido che rende aspra la
linea o dentro il ricamo grafico che si compiace nel distribuire luce a
triangoli e cerchi che caricano di tensioni liriche il Poeta laureato » o
immalinconiscono l’austerità dello « Specchio » o l’eleganza del « Falconiere ».
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Guardandoli sembra di uscire dalla nostra
lacerante fretta quotidiana — chiassosa e suicida — per rifugiarci dentro una
simbologia calda e affettuosa più di quanto l’autore non voglia tradire e
confessare: una pittura « silenziosa », anche se il dialogo è aperto con figure
che non sanno sorridere o per ironia o per disincantamento o per pietà, e quasi
ci parlano con sufficienza faraonica e dignità regale da antiche stagioni
ancestrali, e che Perosino fa rivivere quasi per intenzionale crudeltà
presentandole come beni perduti e irricuperabili per nostra colpa ed eccesso di
cattiveria In questa fase di creativa
riscoperta di un mondo impossibile, l’artista asseconda (qui davvero assai
inconsciamente) una sua fatale aspirazione ai « princìpi » alle « forme pure »,
sollecitate magari da un portale o un rosone o un ornato: un capitello greco è
spunto per un idillio formale e come tale da riinserirsi dentro una sagoma
fiorita, una cupola giottesca può farsi simbolo di un sereno equilibrio che va
oltre la statica e la potenza, fino alle fibre di una fanciulla, all’anima di
uno strumento: e allora il dipingerli — comprendo bene— è fatica appagante,
conquista di una dimensione interiore che va ricercando quell’accordo sparito
tra le cose e gli uomini e le forme, fino al turbamento e al disperato
squilibrio della loro collocazione terrena.
Si guardi al motivo delle figure, così
insistente e coerente (» Donne con ventaglio », « Il clavicembalo », « Modista
», « Cavaliere », ecc.): predomina la « categoria » di un essere antico
inventato per dileggio del nuovo o paura del futuro, ma l’individuo, che sembra
fisicamente dimenticato o ucciso, trionfa idealmente di nuovo nelle spoglie
liriche di un gladiatore ferito o di un faraone seduto dentro uno spazio « non
fisico » immenso: cavallo o strumento o falco o bottiglia, tutto è impaginato
sconcertante che non si sa neppure a quali futuri risultati formali potrà
approdare.Le linee tendono a farsi musica, a ispessirsi o allargarsi secondo un
moto che sa di sacralità e insieme di racconto fiabesco, l’intreccio grafico
(che ricorda quello del Cagli di « Proserpina » o del « Capitano di ventura »,
anche se diverse sono le motivazioni, le intenzioni e le tensioni) non può farsi
decorativo per il fatto che esso serve da struttura portante per costruire
dall’interno la visione dell’insieme, cioè quell’intrico onirico — che non sai
se più pregevole sotto l’aspetto signico o semantico o ideologico — al quale
soggiace non solo il gioco delle linee e dei colori ma quello più drammatico
dell’esistenza.
L’aspirazione, comunque, è rivolta verso un
discorso di civiltà e di pulizia: ciascuno attende i propri « profeti » a cui
attingere luce. Non so quanto Perosino abbia scavato nella propria disperazione
per cogliervi sartrianamente il conforto alla sua giornata terrena e quanto
invece vada cercando la consolazione dalla natura o dal cielo: le sue « spirali
» infatti, possono essere ascese verso gli aspetti più commoventi del vivere per
rompere l’abituale rigidità delle composizioni e delle leggi della vita, ma
possono anche rappresentare la durezza compatta di archetipi agili e forti come
belve, o anche Costituirsi come punti di forza per resistere ad una esistenza
troppo carente di sicurezza e di amore qual è quella contemporanea. Comunque
stiano le cose, è certo che a Perosino urge questa lirica esaltazione del mondo
e comprendo il senso del suo « gioco » e della sua « felicità »: essa gli deriva
dal far finta di scavare una età dell’oro dal profondo di se stesso, e di
compiacersi di questa donata e ardita corrispondenza, e di offrircela con la
gioia di chi sa di disseppellire un tesoro.
L’operazione non è ovviamente di tipo realistico ma magico e lirico insieme.
Importante è dar corpo ancora ad una architettura che vive dentro, favolosa come
la preistorica, e per di più unificante ciò che solitamente ci viene offerto
diviso dai sentimenti e dalla storia: la vita e la morte, la realtà e il sogno,
il reale e l’immaginario. In queste tele non sai se ti colpisca di più ciò che è
stato o ciò che deve ancora accadere, la speranza del vivere o l’urgenza del
morire, l’aspirazione al vero o la consolazione dell’inganno accettato. Certo è
che questi simboli sono carichi di attese sconcertanti, di stupefatte
solitudini, di misteriosi silenzi: l’enigma ti coglie di sorpresa e accentua le
tensioni, fino a suscitare ansia e tremore. |